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PAUL CHAIN   

"Quando le piramidi sussurrano note alle stelle! " di Gianni Della Cioppa - Intervista di Francesco Battisti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio primo incontro con Paul Chain, risale al 1983, era venuto a Verona per conoscere di persona Robert Measles, il leader dei Black Hole, che allora stava costruendo la sua oscura creatura, proprio spinto dal fascino dell'uomo delle stelle, ovvero Paul Chain. L'uomo delle stelle, perché Paul parlava una lingua che non conoscevamo, che nessuno di noi poteva capire. Lui volava alto, lontano da tutto e tutti, sopra il cielo, in mezzo alle stelle. E tutto sembrava affascinante, persino le sue ossessioni, i suoi monologhi a tratti incomprensibili. Eravamo in un ristorante al centro della città, ma sembrava di essere dentro una piramide egizia, dove tutte le energie dell'universo confluivano e si agitavano. Conservo ancora oggi un ricordo nitido di quella serata. Il secondo incontro è avvenuto circa un anno dopo, in occasione di un concerto organizzato nella nostra citta da Robert e da me. L'esibizione dei Death SS, edizione Sanctis Gorham sarà devastante e probabilmente il Teatro Laboratorio, a pochi passi dal suggestivo Ponte Pietra e dal famoso Teatro Romano, ne conserva ancora le tracce(NdR sappiamo che esiste un ottima registrazione in cd !!). Nel 1986 Paul Chain si esibisce al Verona Rock con tutto il seguito arcano del suo Violet Theatre. Un'altra serata incandescente ed indimenticabile. Il viaggio di ritorno sarà tragico per Paul, in un incidente stradale riporta serie consuegenze che lo costringono ad una lunga convalescenza. Passano anni dove ci si sente saltuariamente e solo per telefono, ma la sua muisca non si ferma, anzi cambia, si evolve, scopre mille e più forme. Si apre il progetto dei Container, dove Paul può finalmente sfogare le potenzialità del suo genio, che abbraccia dark rock, progressivo, doom, elettronica, stoner, psichedelia, folk, classica… Poi nel 1998, dopo anni di silenzio assoluto, una telefonata apre scenari inatessi "Ciao Gianni, sono Paul Chain, ho bisogno di dire molte cose, devo fare un'intervista, ma devi essere solo tu a farmela, sei l'unico che negli anni non mi ha mai tradito e che non ha mai travisato le mie parole..". L'intervista, bellissima,, esce sul settimanale Il Mucchio Selvaggio. Due pagine, dove Paolo si racconta e getta fuori il perché di tanto silenzio, due pagine dove scopriamo che per la propria arte incompresa si può anche soffrire fino quasi a morire. Ma il tempo ha reso giustizia a questo "artigiano della musica", come lui stesso ama definirsi. E così, l'idea di produrre un suo album nasce spontanea, quando l'estate scorsa passo un intero pomeriggio nella sua splendida villa seicentesca. Ascoltiamo moltissime ore di materiale inedito, nei generi più disparati. Ma Paul è convinto sin da subito "…è questo l'album giusto per la vostra etichetta..". E così ascolto in anteprima "Master Of All Times". Me ne innamoro subito e chiamo la sera stessa Massimo Bettinazzi, per confessargli tutto il mio entusiasmo. Passano i tempi tecnici ed oggi il CD è una realtà. Ed oggi Paul Chain è anche un uomo nuovo, rinnovato nello spirito e nella creatività, un uomo che ha ritrovato sé stesso. Un uomo fragile, come tutti gli uomini, ma capace di scrivere canzoni memorabili, in più stili, per un'esigenza che è prima di tutto sua come artista polivalente e multiforme e poi di un pubblico attento ed esigente, come quello dell'artista pesarese. Dai nostri incontri nasce questa intervista, che spero vi aiuterà a conoscere meglio un vero artista e a cancellare  opinioni altrui superficiali altrui e spesso sorrette solo dall'ignoranza. Un grazie all'amico e collega Francesco Battisti per il magnifico lavoro svolto!

"Lo stile di Paul Chain è unico sebbene prenda in prestito elementi di tutto il grande patrimonio musicale. Entrare nella sua casa studio di Pesaro è sempre un'emozione affascinante perché puoi vedere la storia della musica che ti passa accanto, ti sfiora e non è mai ferma, si evolve continuamente. Tra strumenti "vintage" perfettamente curati e continuamente suonati e mezzi di registrazione digitali con i quali Paul fissa su nastro le sue idee e le improvvisazioni si ha subito l'impressione di essere di fronte a qualcosa di diverso dalla solita sintassi della musica. “La musica è universale dice Chain­ - esiste aldilà degli uomini, gli uomini vi sono dentro". E già, come esordio è piuttosto forte. Si pensa subito al linguaggio musicale come ad un centro con la sua prodigiosa attitudine a propagare effetti di infinitezza. L'immagine, la scrittura, la scena, i linguaggi del corpo e della mente dispiegano con la musica le vele della trasformazione."

Come e quando è iniziato il tuo interesse per la musica?

"Mio padre suonava la fisarmonica, mio Zio la chitarra, sono cresciuto in una famiglia di musicisti. Mio nonno mi regalò una pianola, sai, di quelle ad aria, molto belle. Di lì sono passato a suonare le canzoni che sentivo per radio. All'epoca, nel 1969, avevo sette anni e frequentavo assiduamente anche la sala prove di mio zio. Così ho cominciato a suonare pure la batteria e ho iniziato a comporre brani miei. Un anno più tardi sono entrato in conservatorio e per ben due ho dovuto sopportare lunghe lezioni di solfeggio."

E com'è stato il rapporto con il Conservatorio?

"Ho sostenuto uno di quegli esami classici per entrarci, sai con il pianoforte etc.. quando il maestro suonava io subito ricantavo quello che aveva suonato quando lui cantava io lo risuonavo. Parlan­do, con mia madre disse "Com'è possibile? E' davvero un talento! Diventerà un grande musicista classico". Mia madre era convinta che il mio percorso sarebbe stato quello della classica. Ma io già suonavo la batteria e l'organo, seguivo mio zio chitarrista che si esibiva nei locali, stavo coltivando insomma tutta un'altra cultura."

Questo sempre all'età di atto anni?

"Sì, sì. Era il 1970. E già aveva la passione di vedere come si suonava dal vivo, salire sul palco, guardare l'amplificazione. Sentivo suonare i Beatles, si respirava una bella aria, vedevo ballare lo shake. Insomma, ho dei bellissimi ricordi dei dancing."

Meglio l'atmosfera live dei locali, dunque, piuttosto che il Conservatorio?

"Sono nato sul palcoscenico, il solfeggio per me era una noia mortale. Due anni di solfeggio per me? No, non mi serviva, Suonavo già la batteria, ero un tempista preciso e poi a nove anni ho conosciuto Le Orme che mio padre ascoltava, ho conosciuto i Pink Floyd attraverso mio zio, ho visto Tommy con gli Who che mi ha cambiato la vita. La scelta da fare, è stata ovvia."

Tommy, la libertà, il rock, la voglia di sperimentare ...

"Pensa che mi chiamavano Tommy. Avevo la bici da cross e ci avevo attaccato su la scritta "Tommy". Così è stato con Jesus Ch­rist Superstar."

E con la chitarra quando hai iniziato?

"A dieci anni ho preso in mano la chitarra, ho smesso con il Conservatorio e in pochi mesi ho composto ben venti pezzi.­ A undici anni avevo già la mia band con il mio ampli, la mia chitarra semiacustica e, poco dopo, il distorsore Vox. L'ho acquistato nel '73, era il distorsore che usavano i Black Sabbath. Ero l’unico nella città che a quel, tempo aveva un ampli e una chitarra professionali, facevano la spola a casa mia per vedermi suonare a gran volume. E io proponevo le cose che a­scoltavo in quel periodo. C'era mio zio che aveva i dischi dei Pink Floyd, e io rifacevo " Interstellar Overdrive", rifacevo gli esperimenti con il vento, suonavo pezzi miei, e in più anche quello della morte di Giuda in Jesus Christ Superstar. Non c'era una schema, tutto si fondeva. Era molto bello questo. A metà degli anni '70 uscì "Wish You Were Here" dei Pink Floyd, ma io ascoltavo anche i Kiss. Nel '77 arrivò il punk."

Come hai vissuto quel periodo?

"Pensa che ero stato scacciato da un gruppo e andai a suonare con una altra band. lo suonavo con un sistema di accordatura a­perta, come facevano altri chitarristi, mi viene in mente Jimmy Page. Sembrava di suonare secondo una scuola indiana o medievale. A tredi­ci anni andai a suonare in un gruppo, andavo bene, andavo più veloce di loro, però non sapevo suonare nel sistema tradizionale. Allora que­sti mi cacciarono fuori. "Ma come siete messi?" ‑ gli dissi ‑ "Cosa ci­ vorrà a suonare così " ‑imparai anche quel sistema, tanto l’altro lo conoscevo già. Nel giro di due anni esplose il punk, non ci volle nulla a comporre qualche pezzo alla Ramones Inventai i miei primi pezzi, i Death SS, conobbi Steve... "

Un attimo, un attimo, sappiamo tutti che quel gruppo è stato deter­minante nel panorama del rock internazionale. Spiegaci meglio come sono nati e cresciuti i Death SS.

"Steve faceva una trasmissione punk in una radio di Pesaro "punk collection" Eravamo io, lui e Mughi, che poi ha cantato con i Cani. Un mio amico mi disse che c'era un cantante che voleva fare un gruppo. Nel frattempo a Bologna erano nati gli Skiantos. C’era Il giro di Pordenone, insomma una bella fase creativa. Nel '79 ha visto gli Stranglers. Poi Steve riceveva i dischi direttamente da Londra, viveva­mo il fenomeno in tempo reale. Il gruppo punk durò quattro mesi. Tutti e due eravamo amanti dei Kiss, di Alice Cooper, del cult, dell'horror in bianco e nero. Io ho inventato il nome dei Death SS. Avevo quindici anni, Steve era bravo a disegnare, aveva confezionato un logo bello, con le ali attorno al nome Death SS. Mi propose di inventare dei personaggi horror. Io dissi: "sì, questa è, un'idea giusta ". Dei Black Sabbath avevo sentito qualche pezzo, ma il mio background musicale che proveniva da mio padre erano Le Orme, Tommy degli Who, Jesus. Christ Superstar, mio zio ascoltava e Pink Floyd. Subito dopo vennero i Budgie. Dissi a mio padre "comprami il distorsore” E lui: "cos'è il distorsore?", “Il distorsore è questo”, replicai facendogli ascoltare i Budgie."

Un gruppo di culto…

"Un gran gruppo di Cardiff, una band di hard rock potente senza l'esoterismo dei Black Sabbath Secondo me i Budgie sono stati la base dello stoner. I suoni di "Alkahest" sono molto ispirati ai Budgie."

Ma come è nata precisamente la storia, dei Death SS, vestiti da personaggi horror?

"Come ti dicevo conoscevamo i Black Sabbath, con Steve abbiamo pensato che potesse essere una buona idea quella dei perso­naggi, lui prese quello dei vampiro e lo ha anche dimostrato perché poi mi ha rubato il nome con il copyright, etc.. e i Death SS sono diventati, il gruppo suo, dopo che io li avevo sciolti. Ha potuto rovinarlo commer­cialmente perché a me non interessava. La gente lo voleva, ma io non l'ho fatto, ho  fatto Paul Chain Violet Theatre e via via tutto quello che è successo fino ad arrivare al '98 con, il sistema dei "Containers". Dall'87 al 97 ci sono stati dieci anni di Paul Chain con il logo. Quella è stata la mia fortuna a livello internazionale, poi, come ti ho detto è arrivato il progetto dei "Containers " che rappresenta l'evoluzione del Violet Theatre. Capisci che tutto è stato un processo di contaminazione di tantissime culture, Frank Zappa compreso, Bauhaus, Canterbury sound etc., La mia storia è fatta mille passaggi tutti uniti, non si possono slegare."

Una storia dovuta anche al grande aspetto umano di Paul Chain, un artista che è saputo andare oltre il pentagramma…

"Certo, certo. E' per questo che sono diventato produttore, perché nessuno mi ha dato quello che mi spettava sin dall'inizio. Non mi hanno capito sin dal conservatorio, capisci."

Sei stato e rappresenti la faccia opposta di tutti i gruppi convenzio­nali che magari sono tecnicamente ineccepibili, ma hanno poco o niente da dire.

"Molti non hanno niente da dire, mi dispiace per loro. Io invece ho molto da dire, molte volte non mi hanno permesso di esprimer­mi, ma poi mi sono ripreso con gli interessi quello che mi spettava."

Soprattutto nella fase attuale…

"Infatti mi chiamano da tutto il mondo: "vieni qui, vieni qui”. Invece io sto qui, a Pesaro, come vedi, in questa villa del '600, che mi è stata data quasi in donazione. E' un po' il riconoscimento del­la città, almeno di una parte della città. Un'altra parte, invece, quella dell'ammi­nistrazione sembra essersi dimenticata di me. Insieme lavorammo nell'89 per il centro sociale "Manicomio", li portai nello studio dove lavoravo per registrare la compilation "0721 Manicomio", fa­cemmo un disco con tutti i gruppi di Pe­saro spendendo molto poco. Adesso, chi si è abituato al potere non si ricorda più di me. Comunque non importa. Mi fa piacere sapere invece che a Monterey, per esempio, il proprietario del più importante negozio alternati­vo di dischi ha mostrato i miei album come i suoi preferiti. Lo ha fatto veramente, con un mio amico, il batterista degli Hairy Fairies. Succede di questo. Accade che Lee Dorrian dei Cathedral parli di me con tutti in giro per il mondo, Jello Biafra è un mio fan."

Hai mai pensato di collaborare con Biafra?

Proprio in questi giorni con i ragazzi della Beard Of Stars che hanno pubblicato "Sign From Space ", il mio recente al­bum/cd come Paul Chain The Improvisor, abbiamo pensato di registra­re delle basi da far cantare a Jello Biafra Sai lui è un grande estimatore della scena italiana. Pensa che un giorno inviò un fax alla Minotauro per farsi mandare dei miei dischi perché li aveva consumati!"

Oltre a Lee Dorrian e Jello Biafra, so che hai Anche un altro estimatore, Wino dei Saint Vitus…

"Sì, sì, ho recentemente inviato a Wino delle basi sulle quali lui ha cantato. Pezzi che usciranno su un prossimo “Container”."

Mi è sempre piaciuta una definizione che ti sei dato "uno degli ultimi artigiani della musica”…

"Io lavoro per l'arte non m'importano i soldi. Potrei guadagnare tantissimo e invece a volte faccio fatica a sbarcare il lunario. Le soddisfazioni, però, non mi mancano, ho prodotto tantissimi gruppi nel mio studio, mi sono pagato tutte le apparecchiature che vedi."

Per molti anni hai pubblicato dischi con la Minotauro, ora la tua produzione è davvero variegata. Con quante etichette stai lavorando?

"Beh, almeno una decina, due delle quali americane. Tra l'altro è uscito anche un disco con distribuzione internazionale, un tributo ai primi Death SS dove molti gruppi reinterpretano i miei pezzi, quelli che scrissi con la prima formazione dei Death SS. Che poi sono quelli effettivamente riconosciuti. E qui c'è la diatriba con Steve, capi­sci, perché solo qui in Italia c'è la lobby dei giornalisti che ignora i primi, Death SS."

Quando sono entrato qui a caso tua, mi sono subito stupito della cura con cui conservi ed usi gli strumenti e gli apparecchi di registrazione. Cos'è lo "studio" per Paul Chain ?

"Lo studio lo vedo come un piano stellare, cosmico, per me il mixer è un piano cosmico, le operazioni che faccio con il mixer sono spirituali sono legate al cielo. Passare la tua vita a guardare il cielo è capire. Io non ho mai voluto imparare a suonare, non ho mai studiato. Non imparo quando suono. La mente è troppo impegnata, la mente impara nelle pause, quando non suoni. Quando non suoni impari e quando suoni è come se tu ti fermassi, capisci. Molti mi chiedono "ma quanto hai studiato per imparare a suonare così?» lo non ho mai studiato. Io do la mia interpretazione alle cose, per questo mi piace sperimentare, provare a suonare tutti gli strumenti."

Qui nel tuo studio hai di tutto, dagli effetti eco a nastro, a vecchi registratori analogici, fino alle più moderne tecnologie, per non parlare poi degli strumenti, gloriosi organi, chitarre etc... Che rapporto hai con gli strumenti "vintage" visto che tutto questo va oltre il collezionismo perché sono tutti strumenti che rivivono sotto le tue mani?

"Qualche anno fa un mio caro amico, Aldo, che ora è scomparso, si meravigliava che io suonassi l’organo Hammond. Sai, lui era un grande appassionato di elettronica e nuove tecnologie, era un estimatore di Klaus Schulz. Mi disse: "suoni l'hammond?". “Suono l'hammond" risposi. “Ma l'hammond ha un suono superato" – esce lui E io "non è stato sfruttato abbastanza, vedrai che ritornerà il suo­no hammond". E così è stato. E' facile intuirlo, perché quello è uno strumento che è stato accantonato a causa della forza e della fretta de­gli uomini. E invece è uno strumento troppo grande, che deriva dall'organo da chiesa, è stato suonato nelle orchestre, è uno strumento elettromeccanico che non puoi mettere da parte facilmente. E' vivo: quando lo suoni succede qualcosa di planetario. Negli anni '80 l'hammond è stato tabù, per certi versi quegli anni sono stati terribili. Oggi, come spesso accade, c'è un recupero di certi suoni."

Tu hai lavorato per otto anni in un Ente pubblico, poi ti sei licenziato per dedicarti totalmente alla musica.

"Sono stati anni davvero difficili in cui mi sono rovinato la salute. Di mattina ero impiegato presso la Camera di Commercio, poi, di sera prendevo e partivo a suonare per tutta l'Italia. E' ovvio che con il passare del tempo ho fatto una scelta che riguarda la mia vita, mi sono completamente dedicato alla musica, ho investito sullo studio di registrazione, il Day Records, attraverso il quale sono passati centinaia di musicisti e sull'evoluzione di Paul Chain come artista. C'è una cosa che ancora non si è capita in Italia. Quando tu dici di suonare, di fare il musicista, l'artista in pochi ti rispettano e invece è un mestiere come un altro. E' strano questo, ma quando dici che suoni, che fai dischi, che collabori con musicisti italiani e stranieri, vieni preso quasi per un delinquente Tanto peggio se hai capelli lunghi. Io i capelli non li taglio mai, non mi si allungano neanche ormai!"

Hai parlato di anni difficili...

"Alla fine degli anni ottanta ho sofferto un brutto periodo di stress. Suonavo oltre che con il mio gruppo anche con i Boohoos e­ravamo tutte le sere in giro ero stanco. In quel periodo, poi, morì un mio amico Giuseppe Cardone, fotografo e artista, autore della copertina di "King Of The Dream ", con il quale, collaboravo sin dal 1981, incompreso anche lui. Poi, mi sono sposato con una mia fan, dopo tre mesi che la conoscevo. Mi è capitato di poter lavorare presso la Camera di Commercio, ho accettato, anche come sorta di sfida, per dimostrare che potevo fare il musicista, avere la mia identità, senza rubare niente a nessuno. Però sono stati otto anni d'inferno. Ho mollato tutto e ho investito tutti i soldi per lo studio e per mantenere mia moglie, dalla quale poi mi sono divorziato. Ora sono qui, vivo a tempo pieno con i miei progetti musicali e quelli dei gruppi che collaborano con me, sto bene. Tuttavia ho vissuto sulla pelle momenti molto pesanti, che ho pagato sia fisicamente che mentalmente."

Ora vedo che stai lavorando molto...

"Sì, sì. Dopo un periodo di lavoro intenso come produttore ora voglio dedicarmi un po' più a me. Ho vissuto una forte delusione per come si stava sviluppando il rock in Italia, evoluzione, anzi involuzione, totalmente opposta al modo di vedere mio e di altri che hanno gettato praticamente le basi. Sono molto amareggiato, perché in gran parte le idee sono state totalmente mangiate dai vecchi delle major. Fortunatamente all'estero mi apprezzano e sono molto contento di questo, anche in Italia ha un nutrito numero di fan, ma nel mondo della musica ho incontrato sempre difficoltà. All'estero invece ci sono alcuni artisti importanti come Lee Dorrian e Wino che hanno chiesto di collaborare con me."

Quando nel '95 uscì "Alkahest" per la Flying, casa madre della Godhead, si respirava un'atmosfera di grande attesa. Tutti noi che avevamo seguito i destini di certo rock italiano aspettavamo quell'album come modello di una avvenuta crescita anche di credibilità nei confronti del mercato estero...

"Quel disco è stato molto importante, purtroppo dopo la sua uscita la Flying fallì e "Alkahest" si fermò a 10.000 copie vendute. Un album realizzato insieme a Lee Dorrian che aveva venduto 300 mi­la copie con i Napalm Death e 150 mila con i Cathedral avrebbe potuta vendere benissimo 30 mila copie. E' stato distribuito internazionalmente, ho cura­to la registrazione nei minimi particolari, e ho realizzato con meno  di dieci mi­lioni un disco che altri avrebbero fatto con cinquanta. Questo grazie alla mia esperienza di musicista/produttore, agli anni trascorsi in studio di registrazione, dopo essere  cresciuto al Koala studio recording di Paolo Cingolani nella se­conda metà degli '80s. Quando la Flying ha aperto la Godhead sono stato il primo artista ad essere messo sotto contratto, ho fatto un disco con pochi milioni e ho fatto guadagnare all’etichetta un sacco di soldi."

Sei stato in qualche modo un precursore del cosiddetto lo-fi?

"Praticamente me lo sono inventato. In quel momento sapevo che realizzare quel disco era importantissimo, dovevo ovviamente produrre una registrazione professionalmente perfetta, ce l’ho fatta con otto milioni e mezzo ingegnandomi con gli strumenti che avevo a disposizione. In quel periodo ero praticamente stressato, lavoravo venti ore al giorno, ero stravolto. Sono anche rimasto sordo da un orecchio per un periodo perché nella stanchezza e nella fatica di quei giorni, sbagliando a pigiare un tasto con la cuffia in testa, ho subito un frastuono debordante, tant’è che ho dovuto proseguire in maniera difficoltosissima solo con un orecchio funzionante. Tra l’altro ho dovuto litigare con i tecnici della Flying perché io ero convinto che diversi missaggi su nastri DAT, di marche diverse, suonassero differentemen­te. Loro no, volevano mandare tutti i missaggi che ho fatto riversati in un unico nastro DAT. Al che mi sono arrabbiato, abbiamo chiamato il tecnico dello, studio di Londra dove "Alkahest" è stato masterizzato, lo stesso studio dove masterizzavano i Cathedral, e lui ha mi ha dato ra­gione. "E' ovvio” -ha detto"che ogni brano missato su un dat diver­so suona diversamente. Io lavoro sempre così, prendendo dagli artisti tutte le numerose versioni su nastri diversi". Allora anche quelli della Flying si sono convinti che avevo ragione."

Quali sono i musicisti che collaborano con te in questo periodo e quali sono i tuoi progetti attuali?

"Ho diminuito molto le produzioni artistiche, anche perché dopo numerosissimi gruppi che sono passati da casa mia dovevo trovare un fonico che potesse seguirli. Ho considerato invece di pun­tare sui miei progetti e di continuare a produrre le band con le quali ho un rapporto di collaborazione diretta, mi riferisco agli OJM di Treviso, agli Hairy Fairies di Rimini e ai marchigiani Pelikan Milk. Sono tutti ragazzi con i quali suono anche nei miei dischi. Spiegarti i miei progetti attuali non è, semplicissimo, perché come vedi sono coinvolto in tantissime situazioni. D'altronde la mia carriera è lun­ghissima, ti ho ricordato prima i miei primi anni, il periodo Death SS, che ho chiuso con la pubblicazione "The Story Of Death SS 1977‑ 1994". In seguito ho pubblicato quattro dischi con il nome Paul Chain Violet Theatre. Ho abbandonato l'ultima parte della si­gla per continuare come Paul Chain. Questo è il nome classico che continuo ad usare per i miei progetti di psychdoom, poi incido anche con le sigle; "P.C. The improvisor", si tratta di musica improvvisata, sono un grande sostenitore dell'improvvisazione. Con questo nome ho da poco pubblicato "Sign From Space ". Il disco è uscito per l'etichetta Beard Of Stars messa in piedi dai ragazzi che nei primi ottanta suonavano con i Vanexa. E' un cd molto cosmico, caratterizzato da lunghi viaggi psichedelici alla maniera degli Hawkwind. Poi ho anche il progetto “P. C. Experimental Information", con il quale voglio dedicarmi a musiche non convenzionali e a collaborazioni con altri artisti. Ogni disco uscirà e verrà denominato da una sigla identificativa "Container" con un numero di riferimento. Con questo voglio intendere i vari Containers come progetti totalmente aperti alle contaminazioni e collaborazioni, fuori dalle logiche di mercato delle etichette ufficiali. Spero che tutto questo possa dare un segno positivo alla situazione drammatica nella quale versa gran parte del cosiddetto rock italiano."

Hai anche uno studio a Vittorio Veneto vero?

"Sì. Lì ho altri amici, con cui suono, Dr Z, Simon, Carniel, Ricky, Vanni."

Puoi anticiparci la tua mosse discografica attuali?

"È appena uscito "Masters Of All Times", con la sigla Paul Chain The Improvisor, per la Andromeda Relics di Massimo Bettinazzi e che coinvolge anche il critico Gianni Della Cioppa.  Poi ci sono due sette pollici, uno s'intitola "Solitude Man", è un EP a 7" a tiratura limitata per la Beyond, uscito con la sigla classica Paul Chain, l'altro è uno split di P.C. The Improvisor, diviso con gli americani Internal Void, s'intitola ''Full Moon Improvisation", è stato pubblicato dalla Southern Lord e sta vendendo molto bene negli Stati Uniti. Ho in mente di realizzare una serie di singoli che poi saranno raccolti in un cd, contenente anche bonus tracks, dalla veste grafica  molto ricercata. Marco Melzi della Minotauro vorrebbe ristampare il vecchio catalogo  oltre a numerose ore di materiale inedito scritto negli anni, che prima facevo uscire su nastro con la sigla "Relative Tapes". Inoltre posso già anticiparti che abbiamo concordato con la Andromeda Relics una seconda uscita per settembre del prossimoa nno, se tutto va bene.  Ci sono molte cose in ballo e vedrai che recupererò il tempo perdutò. Sono tornato per restare!"

Paul Chain contatti:

http://web.tiscalinet.it/paulchain

Official Fan Club: C. P. 53, 10040 Druento (TO

 

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